L’ Analisi
l paesaggio industriale europeo è stato colpito dalla grande crisi. Quello italiano è stato disarticolato. Tra il 2007 e il 2016 – secondo le ultime stime di Sergio De Nardis, direttore del settore analisi macroeconomica dell’Ufficio Parlamentare del Bilancio – il potenziale industriale dell’Italia si è ridotto del 19,5%, mentre quello tedesco è aumentato del 6,5 per cento. Anche se l’export ha sfondato il tetto dei 400 miliardi di euro, la produttività generale delle nostre imprese manifatturiere è tornata ai livelli ante 2008 e quella particolare di un preciso segmento dimensionale – tra i 10 e i 250 addetti – ha uno standard di eccellenza, ulteriormente accresciuto – negli anni della grande crisi – rispetto perfino alle aziende tedesche.
I calcoli comparati di Nomisma sulla perdita della produzione manifatturiera potenziale dei principali Paesi europei mostrano l’entità del trauma. Dall’inizio della crisi al 2014, il nostro tessuto produttivo si è ridotto del 17,7 per cento. Questa erosione è stata pari a tre volte quella sperimentata dall’intera area euro, la cui struttura produttiva è diminuita del 5,5 per cento. La Germania – con una eccezione motivata dalla maggiore consistenza tecnomanifatturiera e dalla profonda ristrutturazione avvenuta fra il 2002 e il 2005, dalla leadership sulle politiche economiche dell’Unione europea e dall’influenza sulle politiche monetarie della Bce – ha aumentato – sempre fra 2007 e 2014 – la sua dotazione strutturale del 7,7 per cento. Non è un caso che economie gerarchicamente integrate con la Germania come il Belgio, l’Austria e l’Olanda abbiano visto il loro potenziale manifatturiero aumentare, dall’inizio della grande crisi, rispettivamente del 16,3%, del 7,3% e del 3,2 per cento. Fuori dalla prima cerchia dell’ordine gerarchico industriale tedesco, all’Italia è dunque andata male. Alla Spagna è andata malissimo: fra 2007 e 2014 si è polverizzato quasi un quarto – il 24% – del suo potenziale manifatturiero. Meno duro l’impatto sulla Francia, che ha comunque perso il 10,9% del suo apparato industriale.
L’ipotesi Industry 4.0
Questa strategia di riqualificazione del capitalismo manifatturiero internazionale – basata nella versione tedesca su un nuovo concetto di fabbrica e nella declinazione americana su una nuova idea di rapporto fra la fabbrica e il mercato – dovrà trovare una specificità italiana, in un Paese come il nostro che è già stato protagonista dei grandi cambiamenti industriali negli anni Settanta (uomini sostituiti dalle macchine), negli anni Ottanta (macchine con macchine) e negli anni Novanta (automazione intensa e prima informatizzazione dei processi).Ogni ipotesi di impatto di breve o di lungo periodo deve confrontarsi con il principio di realtà, cioè il profilo concreto del paesaggio industriale italiano, messo peraltro sotto pressione dalla grande crisi. Per il Centro Studi Confindustria il percorso d’innovazione prevalente è «il risultato di un processo informale e spesso sporadico di apprendimento, quasi interamente legato al momento del rinnovamento del capitale fisso».
Finale di partita
La manifattura internazionale sta cambiando pelle. Gli imprenditori italiani, a questo punto, devono tornare a investire nelle loro aziende. Solo così la direzione strategica di Industry 4.0 conferirà davvero più coesione e compattezza a un tessuto produttivo ancora vivo, ma ridotto nelle dimensioni e nelle potenzialità.